Un suicidio imposto

Un suicidio imposto

 

L’incapacità e l’inerzia di un Parlamento di esprimere un accordo di legge condiviso sul tema del suicidio assistito, così eticamente sensibile, ha “costretto la Corte Costituzionale ad emettere una sentenza che inevitabilmente dovrà essere poi riesaminata e riproposta in forma di legge dalle due Camere, ma ha aperto un varco che non potrà evitare d’ influenzare le proposte legislative.

In sostanza la Corte ha ritenuto non punibile, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni (e qui può iniziare tutta la parte discrezionale), chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (ci si chiede quali siano per i giudici questi trattamenti) e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche (l’ufficio stampa della Corte ha comunicato la necessità di correggere “un refuso”: non, come scritto, “sofferenze fisiche e psicologiche, ma “sofferenze fisiche o psicologiche”, con tutto quello che tale peggioramento di senso comporta), che reputa intollerabili con una decisione libera e consapevole.

Non posso e non voglio entrare nel merito giuridico che appartiene a chi ha competenza in materia, ma ogni parola di questa sentenza apre squarci di morte per molte situazioni, con interpretazioni che possono essere estremamente soggettive, come dimostrano le esperienze di alcuni Paesi come l’Olanda e la Svizzera.

Mi limiterò ad alcune riflessioni in qualità di medico e di credente.

Nell’ ultimo anno del corso di laurea in  Medicina, uno degli articoli di legge presenti nel manuale di medicina legale era quello del suicidio assistito, l’art.580 del codice penale, citato poiché nella maggior parte dei casi si pensava fosse rivolto alla professione sanitaria e che a tutt’oggi è stato “mitigato” dalla Corte ma non abrogato:

“Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima [c.p. 29, 32, 50, 583]. Le pene sono aumentate [c.p. 64] se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio [c.p.p. 575, 576, 577].”

Questo articolo del Codice Penale si affianca al giuramento d’Ippocrate che ancora conservo e che nello specifico diceva:” Giuro… Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”. Questa era la versione “classica” ma la versione “moderna” esprime lo stesso concetto: “Giuro…di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente”.

Entrambe le versioni esprimono lo stesso giuramento di un medico: rispettare la vita e non assecondare la richiesta di volontà di morte del malato (evento per la verità rarissimo), fornendo assistenza al suicidio.

Una voce “laica”, nel senso che rappresenta l’insieme dei medici italiani credenti e non, favorevoli e non all’eutanasia, Filippo Anelli, presidente della Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) afferma:

 «Da sempre la morte è il male per i medici. La consideriamo il nemico numero uno». Come sanitari «siamo chiamati a migliorare la vita, abbiamo nel Dna il rispetto della dignità, l’alleviare, il venire incontro. Non abbiamo mai pensato di trasformare questo paradigma usando la morte per alleviare le sofferenze».

Il Presidente della Federazione degli Ordini dei Medici riassume la prassi e l’esperienza professionale dei medici che hanno pensato la loro attività in funzione dell’aiuto alla persona, anche e direi soprattutto nei momenti difficili della vita, come in coloro che sono nella fase terminale  e nella sofferenza.

In queste occasioni il malato va ascoltato, aiutato, curato e sempre gli va data una speranza che non è menzogna sulla sua condizione, ma la riscoperta di piccoli gesti quotidiani, che danno senso alla vita (la bellezza di un affetto, di un fiore, di un canto) anche se in condizioni molto difficili.

Il malato va curato attraverso le cure palliative, la terapia del dolore e della depressione che dalle condizioni fisiche potrebbe generarsi, accompagnandolo alla fine di una vita dignitosa e non al baratro della morte come vorrebbe quella cultura, che san Giovanni Paolo II già chiamava “cultura della morte”.

Per questa cultura, come conseguenza del relativismo etico che si è imposto nella nostra società, si sono sfumati a poco a poco i contorni tra il bene e il male, anzi il male è stato travestito da bene, come nel caso in cui si cerca il facile consenso dicendo che si vuole far morire queste persone “con dignità”. E’ esperienza di vita che quando ci sono cure adeguate, vicinanza, competenza e compassione, la persona non pensa di voler concludere la propria vita perché si sente accolto e non rifiutato, anche in una condizione così estrema.

E lo stesso Codice deontologico del 2018, che è stato richiamato dal Presidente dell’Ordine dei Medici di Roma, all’ articolo 17 (“Atti finalizzati a provocare la morte”) ad esprimere chiaramente  che “il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.

San Giovanni Paolo II esprimeva con parole profetiche quanto sta accadendo adesso: «La nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di “delitto” e ad assumere paradossalmente quello del “diritto”, al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento gratuito degli stessi operatori sanitari» (“Evangelium Vitae”, 11).

Il riconoscimento legale di un diritto, anche se questo prevede di disporre della vita e della morte di una persona, seppure consenziente, è sempre l’esito finale di una battaglia per alcune ideologie come quella dell’eutanasia.

Scrive Papa Francesco, in “Amoris Laetitia”: «La valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso… L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati» (n. 48).

Naturalmente va accolta anche la richiesta della persona di poter interrompere pratiche mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto a quanto queste cure possono ottenere. In questo modo si ha la rinuncia all’« accanimento terapeutico ».

A questo proposito, il Catechismo della Chiesa Cattolica sottolinea che «non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire». Non è un “bizantinismo”, ma accettare che la vita abbia un termine naturale che non esclude tuttavia la possibilità che le attuali conoscenze mediche e chirurgiche possano e debbano intervenire per salvare le vite delle persone in modo ancora più efficace rispetto al passato.

In contrapposizione a Epicuro che, paradossalmente, diceva, giocando con le parole: «Finché io ci sono, la morte non c’è! Quando la morte ci sarà, non ci sarò io! Perché preoccuparmi?» (“Lettera sulla Felicità”), ritengo che in ogni istante è l’uomo vivente che va verso la morte e che l’uomo morente è ancora vivo e che non si può considerare , questo sì per la sua dignità, un “precadavere”!

Nella fase terminale della vita c’è sì un diritto a morire, ma nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana, religiosa e aggiungiamo cristiana dovuta, escludendo sia di anticipare la morte (eutanasia) che di dilazionare la vita mediante una tecnologia medica che diventa “abusiva” (accanimento terapeutico) per “il principio della proporzionalità delle cure”, che chiede di rinunciare ai trattamenti che potrebbero solo determinare un prolungamento precario e penoso.

Tutto questo senza naturalmente interrompere le cure che possiamo anche chiamare “palliative”, come quelle sul dolore, oppure cure “essenziali” come la nutrizione e l’idratazione, anche artificiali;  queste rientrano tra quelle dovute a un malato, per evitare le sofferenze provocate dalla mancanza di alimentazione o dalla disidratazione, circostanze che da sole potrebbero essere causa di morte.

Dinanzi a questo pronunciamento della Corte, e in particolare sulla legge dei “Dat”, esprimiamo sdegno anche per il tentativo di abolire un caposaldo “democratico”, riconosciuto da ogni nazione civile, che è quello dell’obiezione di coscienza, punto di attacco da parte delle associazioni laiche che vorrebbero travolgerlo, anche in quelle situazioni già tutelate dalla legge stessa come per l’interruzione di gravidanza.

Pertanto, ci permettiamo di rivendicare, rispetto alla legge sui Dat, il diritto all’ obiezione di coscienza, poiché come indicava san Giovanni Paolo II nella “Evangelium Vitae”: «Quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante. […] Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Già nell’Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell’autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio»  (n. 75)

La legge civile, quando si pone contro un bene come quello della vita, che per noi cristiani è indisponibile, deve prevedere la possibilità di ricorrere allo strumento dell’obiezione di coscienza. Per ogni credente, come per le levatrici degli Ebrei, è indispensabile scegliere la legge di Dio quando la legge civile va contro la vita, bene che appartiene al Signore in modo inviolabile e indisponibile.

Dott. Francesco Bungaro

Presidente Nazionale dell’Associazione Terapisti Cattolici