Relazione d’aiuto – Come il medico cristiano può aiutare il malato
Intervento della dott.ssa Tiziana Marusso
Relazione d’aiuto
Come il medico cristiano può aiutare il malato ad affrontare, percorrere e, possibilmente, superare l’esperienza della malattia.
Sulla scena della vita credo che tutti, indistintamente, ad un certo punto devono affrontare la malattia, l’essere ammalati e tutti, indistintamente, desideriamo trovare dei bravi medici, umani, preparati che ci curino bene, che ci aiutino a guarire. Il più delle volte l’approccio con il modo della malattia non avviene tanto sulla nostra pelle, quanto su quella di un nostro familiare, di una persona che ci è cara e che accompagniamo in questo percorso, a volte molto doloroso, impervio che ci rapporta con il mondo della sofferenza, mai quantificata, mai quantificabile, sofferenza che a volte è intersecabile con il “dolore fisico” altre volte assolutamente no, perché permeata da un vissuto di perdita (di salute, di efficienza fisica) e quindi molto più profonda e personale.
Se dovessi definire il ruolo medico-paziente dove il medico è, ovviamente, un medico cristiano lo definirei come l’incontro tra un uomo e “un bisogno” che viene da un altro uomo; incontro assolutamente impari che proprio per questo investe il medico di una grande responsabilità; impari, ma dinamico , non statico; quel malato il più delle volte starà meglio, guarirà, mentre anche il medico potrà a sua volta ammalarsi, essere malato. Quindi nessuna supponenza, nessun atteggiamento di arbitrarietà ma solo piena consapevolezza del ruolo ed esercizio responsabile della professione.
In questa dinamicità di ruoli una prerogativa importante della relazione medico-paziente credo debba essere l’empatia, ovvero la partecipazione consapevole a ciò che il malato sta provando nella malattia, empatia che risulta più vera e credibile quando anche il medico ha vissuto una esperienza analoga e ne fa dono esperienziale al malato che cura.
Mi viene in mente ciò che scrive Ignazio Marino nel suo libro “Credere e curare” proprio a proposito di questa esperienza:”personalmente credo di aver capito un po’ di più di quel che accade nella mente di un malato e delle aspettative che si creano nei confronti dei medici, nel momento in cui mi sono trovato dalla parte della barricata, steso in un letto di ospedale. A distanza di anni, penso sia stata in qualche modo la provvidenza a farmi ammalare, costringendomi a provare sulla mia pelle almeno una parte delle sofferenze che io infliggo ogni giorno ai miei pazienti per cercare di portarli sulla via della guarigione.
E’ stato in quell’ occasione che ho compreso tante cose che non sono scritte nei libri di medicina. Ho vissuto l’ansia che si prova quando l’anestesista ti prepara per la sala operatoria e , mentre ti racconta quello che sta facendo, tu perdi lentamente conoscenza nella paura di essere abbandonato alla capacità di giudizio e all’abilità di menti e mani altrui. Ho capito il dolore e la paura di chi si risveglia dopo un intervento chirurgico con un tubo di plastica in gola….”
Ignazio Marino è ovviamente un chirurgo e ciò che descrive è un’esperienza del malato in ospedale; tuttavia per come la vedo io, l’esperienza della malattia è analoga in qualsiasi ambiente essa è vissuta. E’ un’esperienza mai banale, mai riproducibile, molto personale che alla fine, quando essa passa , se si ha la fortuna di guarire non ti lascia mai come l’hai iniziata.
Per esperienza so quanto spesso il malato si senta profondamente solo con la sua malattia. Spesso il paziente racconta di essersi sentito come una pratica da sbrigare, come un numero su un registro, una cartella clinica zeppa di dati, ma priva di sensazioni e di bisogni. Fondamentalmente ciò che viene lamentato è il mancato ascolto. Il paziente sente che la sua individualità non è stata rispettata, che la sua identità è stata in qualche modo annullata e da qui la sua frustrazione profonda , la sua rabbia….Quante volte ho dovuto gestire questa rabbia e quanti sfoghi ho dovuto ascoltare!!!
Affermare che si è trattati come un numero significa denunciare che l’altro ci ha considerati come entità prive di emozioni, oltre che di pensieri e opinioni, di progetti, di speranze. Tali vissuti vanno ad aumentare quella solitudine con la quale tutti, inevitabilmente, ci confrontiamo, quando siamo toccati dalla malattia. Si tratta di una percezione terribile d’isolamento; la malattia fa emergere i nostri timori più profondi. Siamo soli nell’angoscia, nel dolore che affligge il nostro corpo, siamo soli nel confortare la preoccupazione che attanaglia i nostri cari…..
Fronteggiare consapevolmente tale isolamento, gestirlo con lucidità non è affatto facile.
Da qui derivano le considerazioni oggi largamente condivise, sulla necessità dell’ascolto. Il malato va ascoltato, accolto da medici e infermieri. Si parla tanto di qualità umana dell’operatore sanitario: è questa: porsi dinanzi all’altro con tutto il rispetto che si deve alla sua identità, al suo essere persona.
Si sottolinea dunque che se una persona, ad esempio, soffre per una malattia di cuore, tutto l’individuo soffre; impossibile scindere il dolore fisico da quello mentale. La fortuna di fondo di tante medicine alternative è proprio in questo approccio “olistico” all’uomo, al suo corpo, alla sua psiche, al suo spirito ed essa nasce dall’ esigenza profonda di “ascolto” che ogni creatura umana ha in sé, molto più se affetta da qualche malattia.
Scrive Tiziano Terzani nel suo libro “Un altro giro di giostra” in cui narra la sua odissea di malato di cancro in giro per il mondo alla ricerca della “Cura miracolosa”: “sentivo che il medico di Kakinada aveva una visione dell’uomo più vasta, più complessa e anche più magica dei miei bravissimi “aggiustatori “di New York. Per lui era ovvio che il corpo non è solo una macchina, che la malattia non è solo un fatto fisico e che per questo anche la terapia non può essere solo una questione di chimica. La sua cura per il cancro teneva conto anche degli influssi dei pianeti!”.
Questo medico ayurvedico aveva in pratica messo in atto quella comprensione empatica che è centrale nella cura di qualsiasi persona.
Competenza e Compassione; due parole che sempre dovrebbero accompagnare il medico cristiano e non solo!
Riconoscere il disagio emotivo, aiutare il paziente a confrontarsi con esso , accompagnandolo in questo doloroso cammino, vuol dire non lasciarlo solo. E come avviene in tutte le relazioni di aiuto alla fine chi viene realmente arricchito è colui che elargisce la cura, non tanto chi la riceve.
E questo, secondo me, è tanto più vero quanto più “bisognoso” è il fruitore della cura. La lunga esperienza fatta in questi anni con gli anziani totalmente non autosufficienti della Casa di riposo in cui presto il mio servizio e quella con i malati terminali che seguo a domicilio mi ha aperto gli occhi verso un modo tutto speciale di vivere la sofferenza; più essa è grande e più diventa silenziosa… Non chiede tanto di essere colmata con parole, bensì con gesti. L’anziano allettato, demente, con piaghe da decubito o il malato terminale non parlano, i primi non lo sanno più fare, i secondi non ne hanno voglia.. ma ti guardano …e personalmente ho imparato più cose sulla medicina da questi sguardi che da tanti bei libri di clinica medica.
Devo dire che mi sono molto serviti i vari seminari che ho fatto soprattutto quelli di Antropologia cristiana, relazione d’aiuto e identità. Essi hanno spalancato le porte del mio cuore ad un altro sapere, un sapere permeato dalla presenza di Cristo, uno sguardo non solo organicista ma anche psicologico e spirituale verso il malato. D’altronde le malattie psicosomatiche non sono certo un’invenzione e la depressione che accusano molte donne dopo un aborto provocato non è fantasticheria ma realtà con le quali mi confronto quasi quotidianamente.
Come non rivisitare queste esperienze alla luce della fede? Un mio amico sacerdote che segue personalmente molte donne che hanno abortito, una volta mi ha detto: “Tiziana queste donne che hanno ospitato nel loro corpo un’esperienza di morte, ricordati che per tutta la loro vita se non si riconciliano con Dio e con se stesse faranno sempre scelte di morte” e questo, Dio solo sa quante volte l’ho verificato di persona!
E queste cose si comprendono bene se si abbraccia la visione della realtà dell’uomo” uomo-persona, non solo corpo, ma anche psiche e anima; per cui se una parte (corpo-psiche-anima) soffre, anche tutte le altre soffriranno e viceversa. Chiaramente in questo modo si capisce quanto sia restrittiva una visione “solo organicista” per la quale il medico focalizza la propria attenzione solo sull’organo da curare, sia esso fegato o cuore o rene ecc, tralasciando la cura della persona in toto. Ecco allora il disagio profondo di quei malati che dicono di essersi sentiti,un numero in un letto di ospedale, un nome in una cartella clinica ed ecco spiegato anche il perché della fortuna di certe medicine alternative che promuovono una visione “olistica” dell’uomo con le derive pericolose che ne conseguono tipo concetto di uomo-dio e il “tutto intorno a te” di martellanti spot pubblicitari.
Per finire credo che dovremmo porci questa domanda: il paziente cosa chiede? una diagnosi corretta o “essere curato?”
Entrambe le cose dico io. Ancora oggi in pieno boom tecnologico posso affermare che i miei pazienti “desiderano” essere visitati, auscultati, toccati. Quante volte mi sento dire: “dottoressa adesso che sono qui mi faccia una bella visita!” La visita, sicuramente di ridotta utilità diagnostica rispetto ad un esame strumentale moderno ha il valore di costruire un’intimità tutta speciale tra medico e paziente, a rafforzare la fiducia, a spingere l’ammalato ad aprirsi, a raccontare i propri timori e non solo i sintomi.
In questo modo si crea un legame umano tra chi cura e chi viene curato che nessun esame, per quanto perfetto, potrà sostituire.
Nello stabilire questo particolare legame con il paziente mi è di grande aiuto essere un medico “credente”; Dio mi aiuta. Con Lui e con l’esperienza mi accorgo che con gli anni ho acquisito quello che chiamo “il terzo occhio” che mi fa vedere spesso ciò che vi è “oltre” il sintomo descritto da un paziente che magari somatizza un disagio profondo, uno stato d’ansia ecc…. Ecco allora che la medicina può trasformarsi da fredda interpretazione di una indagine strumentale ad arte, l’arte della maieutica potremmo dire che è quella di “tirare fuori” (la maieutica era nell’antica Grecia l’ostetrica) tante cose dall’uomo che vanno ben oltre la sua corporeità.
Di questo sono convinta l’uomo avrà sempre bisogno.
dott.ssa Tiziana Marusso
medico di base a S. Donà, in servizio alla Casa di riposo di via S. Francesco, con lunga esperienza di cura a domicilio dei malati terminali